Ah, la Scandinavia… Che secondo un sacco di gente è la regione più felice del mondo, e si fa presto a spiegare perché: laggiù ci sono i soldi, le persone conoscono la vera civiltà, la libertà, la natura ancora incontaminata e un’atmosfera di immanente spiritualità, che tocca a tutti, anche ai più gretti. Poi c’è l’altra campana che, anche quando non suona a morto, suggerisce una storia diversa… In questo caso la Scandinavia diventa un posto di merda, desolato, freddo e storicamente contaminato dalla depressione. In effetti, la cultura scandinava, dall’Edda poetica a Munch, dagli ABBA a Burzum, assomiglia a una teoria ininterrotta di cogitazioni angoscianti, di urla irrazionali e terrorizzate di individui alienati, arresi alla solitudine e devastati dal doloroso confronto con una natura mostruosa, inospitale e sciagurata.
Dopo più di mille anni di dialogo attivo con queste terre, ancora non è chiaro con cosa abbiamo a che fare. Di sicuro continuiamo a essere affascinati dal mito del grande nord e a considerare ogni sua nuova espressione artistica come una declinazione di un’arcana e irrisolta sacralità pagana, come una rinnovata eco di disperazione o una perversa celebrazione di un istinto di morte, così lontano dalla nostra pura e semplice paura di soffrire e schiattare. Per forza di cose spalanchiamo la bocca, ammaliati, ascoltando la voce cristallina e oltreumana dell’eterea Anna von Hausswolff, cantautrice svedese, che usa accompagnare i suoi canti sacrali con note allucinate di vecchi organi e rumori sotterranei, imparentati con le deviazioni del drone e del black metal. La von Hausswolff non appartiene al filone heavy, lo frequenta di tanto in tanto (collaborando come guest agli album dei Wolves In The Throne Room, o chiamando a produrre i suoi brani il signor Randall Dunn): Anna, forse, è tutto il contrario di un’artista heavy, perché indugia consapevolmente nella lentezza, ama i lirismi del neoclassicismo e la levità inquietante e pacificatrice di certe pause immense e delle ombre tenui, come lievi suggestioni gotiche.
Nel nuovo album “Dead Magic” la von Hausswolff s’inventa quasi un’estetica. Recupera un po’ del suono doom che le serve a creare l’effetto perturbante, un po’ di drone (essenziale in chiave trascendentale e, in opposizione, immanentista) e il solito organo da funerale protestante, poi aggiunge grandi e profondi archi, strutture progressive, passaggi folk, soluzioni da soundtrack horror, preziosismi da musica da camera, accenti rococò, melodie cupe che stanno a metà tra Wagner e i Dark Tranquillity e, quando meno te lo aspetti, graffi da blues saprofago, tribalismi, medievalismi e spettralismi di una certa raffinatezza… Occultismo, sì, ma più positivo di quanto sia lecito aspettarsi. “Dead Magic” parla di morte, di tenebre assolute, di dissoluzioni e di strazio, ma non cede al patetico e al sentimentalismo romantico. Anna von Hausswolff si guarda intorno e in petto, cioè nell’anima, per cantare la contraddizione eterna della coscienza scandinava, quell’algida e tormentata confidenza con la fine e con il caos che ha a che fare con il silenzio, l’assenza, lo spirito puro. Stranezze, per noi gente del Sud… Anche noi, si capisce, percepiamo intimamente il mistero della morte e dell’angoscia, ma di solito ne riscontriamo il senso assoluto solo negli eccessi e nelle complicazioni della vita, come tragedia. In Scandinavia, invece, dalla morte fanno nascere la bellezza, l’intelligenza e, quando capita, pure la magia.
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